Le procedure d’urgenza della Protezione civile non giustificano ogni cosa. I decreti d’emergenza non derogano a tutte le normative in materia di disastri naturali. Se un paese è colpito da una calamità, come una frana o un terremoto, corre comunque l’obbligo di rispettarle certe regole, prima di decidere se e dove e come costruire altrove (ma non dovunque) un centro urbano nuovo di sana pianta. Sono questi i due capisaldi di una sentenza con cui il tribunale amministrativo del Lazio annulla il progetto di ricostruzione d’una delle prime new town realizzate in Italia con il marchio di Guido Bertolaso. È un modello che “crolla”. Perché la new town è quella di Cavallerizzo di Cerzeto, frazione incastonata a nord della Calabria, sul versante interno dell’appennino paolano, in provincia di Cosenza, colpita da una frana esattamente cinque anni fa, quindi ben prima dei disastri abruzzesi e siciliani.
Il 7 marzo 2005, un fianco della frazione di Cavallerizzo finisce a valle. Una falda acquifera esplode, rimpinguata dalle piogge e dalle copiose perdite dell’acquedotto che foraggia l’intera provincia di Cosenza. Il collasso lascia una voragine alta trenta metri. Giù finiscono pure le case che vi stavano sopra, una trentina in tutto, posticce, tirate su spesso abusivamente e persino su corsi d’acqua di superficie. La popolazione sapeva già ogni cosa. Erano pronti alla fuga con una settimana d’anticipo sul disastro, solo questo ha impedito che ci scappasse più di qualche morto. Vanno via tutti e, da quel giorno, nessuno potrà mai più rimetter piede a casa propria. Anche se a crollare è stato solo il dodici per cento del paese, la parte posticcia appunto. Mentre il resto è ancora tutto lì, integro, neppure un segno. L’area in questione è da sempre nota a tutti per la sua secolare fragilità. Altrettanto secolare è però la comunità italo-albanese (parlano due lingue, l’italiano e l’arbëresh) che vive nei comuni del Cosentino, compreso Cerzeto. Nascevano sulla pietra, cinquecento anni fa, i primi insediamenti. E sulla pietra sono rimasti, come la frazione di Cavallerizzo, dove non è mai franato nulla, neppure un segno, nemmeno negli ultimi due anni di flagello invernale continuo.
Ma l’evento di cinque anni fa ha spaventato tutti. In quei giorni il capo della Protezione civile è stato tempestivo. Ha fatto sentire la sua vicinanza alla gente del posto, come da nota consuetudine. E confortando i trecento cittadini ha subito proposto una nuova città, tutta per loro, uguale a quella che stavano lasciando. Accadde quel che spesso succede: una parte della popolazione fu immediatamente d’accordo, un’altra restò perplessa. Dopo un anno dalla frana le carte della ricostruzione sono andate avanti, anche se nel frattempo c‘era un sempre più crescente numero di cittadini a cui passava la paura e anzi gli tornava la voglia di riaprire la vecchia casa. Quelle carte sono essenzialmente due verbali: con il primo, datato 1 marzo 2006, si approva il progetto preliminare; col secondo, il 31 luglio 2007, quello definitivo. Accadde pure che i progetti non presentavano alcunché di lontanamente simile, ovviamente, al vecchio e pure indenne centro storico.
La sentenza del Tar Lazio annulla entrambi i verbali. Merito o colpa, dipende dal punto vista, di un gruppo di giovani del borgo arbëresh, che s’è scapicollato per fermare quel che chiamano «il vero ecomostro», soprattutto perché «non c’era alcun bisogno di de-localizzare il paese». Merito o colpa dello studio legale fiorentino degli avvocati Tagliaferro-Caretti-Palaja , che ha deciso di sposare la causa di quei giovani. Merito o colpa di uno staff di geologi che ha certificato come il nuovo sito sia franoso quanto se non più dell’area franata. Ora cantano vittoria tutti e con loro i padri, le madri, i nonni e gli altri abitanti – ma non tutti – da sempre contrari all’idea di andar via dalle loro case. Ma questa è un’altra storia, che inizia cinque anni fa e che oggi vede chiudere soltanto un capitolo. Perché ciò che conta, per i giudici romani, è che il Governo fa leva sull’emergenza per ricostruire nuovi paesi interi senza osservare alcuno dei criteri normativi previsti dalle leggi italiane. Il che, evidentemente, non è possibile, specie quando si salta a piè pari tutta una serie di procedure di garanzia, non ultima la Valutazione d’impatto ambientale. «Nel merito – scrivono i giudici della Prima sezione del Tar Lazio -, l’impugnativa avverso il verbale della conferenza di servizi del 31 luglio 2007, con cui è stato approvato il progetto definitivo per la delocalizzazione della frazione Cavallerizzo in località Pianette è fondata e va accolta. In particolare – aggiungono -, si rivela fondata la censura con cui è stata evidenziata la omessa valutazione di impatto ambientale richiesta dal d.lg. 152/2006».
È una sentenza, questa, che manderà in fibrillazione l’intero apparato di sottogoverno guidato da Bertolaso, perché mette in discussione il modus operandi adottato sino ad oggi dalla Protezione civile italiana. Non sono bastate le eccezioni dell’Avvocatura dello Stato, la quale sostiene che in presenza di un’emergenza diventa «improcrastinabile la necessità di individuare l’area per la ricostruzione del centro abitato in situazione di sicurezza», ragion per cui si può ritenere «di dover accelerare il procedimento tecnico-amministrativo» usufruendo delle speciali deroghe previste in materia: che non bastano, perché tutto ciò, si legge ancora nella sentenza depositata due giorni fa nella cancelleria romana, è «irragionevole» e «illogico». La decisione arriva però a lavori di costruzione molto avanzati, compiuti almeno all’80 per cento, e con una spesa già sostenuta che sfiora i 60 milioni d’euro prelevati dalle casse pubbliche. Annullato il “titolo” a costruire, la vicenda diventa più controversa di quanto lo fosse in partenza. Soprattutto se si considera che i piani delle ricostruzioni progettate in Italia dalla Protezione civile (L’Aquila compresa) prendono spunto proprio dal modello della “Nuova Cavallerizzo”.
Il 7 marzo 2005, un fianco della frazione di Cavallerizzo finisce a valle. Una falda acquifera esplode, rimpinguata dalle piogge e dalle copiose perdite dell’acquedotto che foraggia l’intera provincia di Cosenza. Il collasso lascia una voragine alta trenta metri. Giù finiscono pure le case che vi stavano sopra, una trentina in tutto, posticce, tirate su spesso abusivamente e persino su corsi d’acqua di superficie. La popolazione sapeva già ogni cosa. Erano pronti alla fuga con una settimana d’anticipo sul disastro, solo questo ha impedito che ci scappasse più di qualche morto. Vanno via tutti e, da quel giorno, nessuno potrà mai più rimetter piede a casa propria. Anche se a crollare è stato solo il dodici per cento del paese, la parte posticcia appunto. Mentre il resto è ancora tutto lì, integro, neppure un segno. L’area in questione è da sempre nota a tutti per la sua secolare fragilità. Altrettanto secolare è però la comunità italo-albanese (parlano due lingue, l’italiano e l’arbëresh) che vive nei comuni del Cosentino, compreso Cerzeto. Nascevano sulla pietra, cinquecento anni fa, i primi insediamenti. E sulla pietra sono rimasti, come la frazione di Cavallerizzo, dove non è mai franato nulla, neppure un segno, nemmeno negli ultimi due anni di flagello invernale continuo.
Ma l’evento di cinque anni fa ha spaventato tutti. In quei giorni il capo della Protezione civile è stato tempestivo. Ha fatto sentire la sua vicinanza alla gente del posto, come da nota consuetudine. E confortando i trecento cittadini ha subito proposto una nuova città, tutta per loro, uguale a quella che stavano lasciando. Accadde quel che spesso succede: una parte della popolazione fu immediatamente d’accordo, un’altra restò perplessa. Dopo un anno dalla frana le carte della ricostruzione sono andate avanti, anche se nel frattempo c‘era un sempre più crescente numero di cittadini a cui passava la paura e anzi gli tornava la voglia di riaprire la vecchia casa. Quelle carte sono essenzialmente due verbali: con il primo, datato 1 marzo 2006, si approva il progetto preliminare; col secondo, il 31 luglio 2007, quello definitivo. Accadde pure che i progetti non presentavano alcunché di lontanamente simile, ovviamente, al vecchio e pure indenne centro storico.
La sentenza del Tar Lazio annulla entrambi i verbali. Merito o colpa, dipende dal punto vista, di un gruppo di giovani del borgo arbëresh, che s’è scapicollato per fermare quel che chiamano «il vero ecomostro», soprattutto perché «non c’era alcun bisogno di de-localizzare il paese». Merito o colpa dello studio legale fiorentino degli avvocati Tagliaferro-Caretti-Palaja
È una sentenza, questa, che manderà in fibrillazione l’intero apparato di sottogoverno guidato da Bertolaso, perché mette in discussione il modus operandi adottato sino ad oggi dalla Protezione civile italiana. Non sono bastate le eccezioni dell’Avvocatura dello Stato, la quale sostiene che in presenza di un’emergenza diventa «improcrastinabile la necessità di individuare l’area per la ricostruzione del centro abitato in situazione di sicurezza», ragion per cui si può ritenere «di dover accelerare il procedimento tecnico-amministrativo» usufruendo delle speciali deroghe previste in materia: che non bastano, perché tutto ciò, si legge ancora nella sentenza depositata due giorni fa nella cancelleria romana, è «irragionevole» e «illogico». La decisione arriva però a lavori di costruzione molto avanzati, compiuti almeno all’80 per cento, e con una spesa già sostenuta che sfiora i 60 milioni d’euro prelevati dalle casse pubbliche. Annullato il “titolo” a costruire, la vicenda diventa più controversa di quanto lo fosse in partenza. Soprattutto se si considera che i piani delle ricostruzioni progettate in Italia dalla Protezione civile (L’Aquila compresa) prendono spunto proprio dal modello della “Nuova Cavallerizzo”.
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